Leopardi e i lirici greci

Leopardi e i lirici greci

L’amore per la poesia greca ha accompagnato il Leopardi fin dall’adolescenza. La passione per la lettura e per lo studio fu in qualche modo aiutata e stimolata dalla possibilità di avere a disposizione una ricca biblioteca di famiglia, di circa 16000 volumi, tra i quali spiccavano anche quelli dei classici latini e greci. Il giovane Leopardi conosceva, sì, il latino ma non il greco; egli, però,  riuscì ad impararlo da solo, ed anche abbastanza bene al punto che ben presto cominciò a leggere con una certa disinvoltura testi di prosa e di poesia. Tra i quindici e i diciassette anni tradusse brani di prosatori con un’esattezza interpretativa davvero sorprendente se si considera che non era passato molto tempo da quando aveva incominciato a studiare la lingua greca, nella quale ammirava la semplicità, la ricchezza del vocabolario pur in presenza di un numero estremamente ridotto di  radici originarie. Si sa come la lingua greca, con l’ uso  di preposizioni premesse alla radice  di una parola, o anche con determinati suffissi legati alla radice stessa, riesce a esprimere una vasta gamma di significati.  La conoscenza del significato delle preposizioni e delle congiunzioni  contribuisce in sommo grado, insieme con l’acquisizione  conoscitiva di alcuni termini base, ad avere  già dalla prima lettura un orientamento sul senso complessivo di un testo. Forse per questo Leopardi  considerava semplice la lingua greca, più ancora del latino e di altre parlate. E questo spiega anche  la relativa facilità con cui in poco tempo divenne padrone del greco, al punto da cimentarsi nella versione di  moltissime opere, sia in versi che in prosa.  Vogliamo ricordarne qui solo alcune tra le più importanti. Le prime esercitazioni avvennero sui prosatori minori, come Esichio, Porfirio, e altri.  Poi, tra i diciassette e i venti anni, si cimentò anche con la poesia: Tradusse gli Idilli di Mosco, la Batracomiomachia dello pseudo Omero, il I libro dell’Odissea, la Titanomachia di Esiodo e altro.  Intorno agli anni ’30 tradusse le Orazioni di Isocrate, il Manuale di Epitteto, alcuni scritti di Senofonte e Platone,  opere di Luciano. E compose commenti sui  Chronica di Eusebio, e anche sul De re publica di Cicerone. Insomma l’attività di erudito e filologo, nonché di traduttore, in qualche modo durò tutta la vita, solo in parte sacrificata alla poesia e agli interessi filosofici.

L’approccio ai testi  greci nella prima fase  è di tipo puramente filologico, e di quella filologia formale che è attenta alle varianti, alla critica del testo, alle annotazioni erudite, alle spiegazioni linguistiche, ecc. Le traduzioni sono comunque un utile esercizio per trovare un proprio stile, un proprio strumento espressivo. Ma questa fase, per così dire di filologia pura, evidenzia una certa sensibilità che si traduce anche in un laboratorio di creatività poetica.  Questa attitudine alla creazione comparve molto presto se è vero che a sedici anni, due anni dopo l’inizio del suo studio del greco, compose di sana pianta un Inno a Nettuno, sul modello degli Inni omerici. Egli lo fece passare per un testo dello pseudo- Omero. Quest’opera fu giudicata non solo come un’abile falsificazione ma come un inno quasi più degno di un originale greco. Leopardi, insomma, riuscì con questo falso a “ingrecarsi”, come disse Pietro Giordani, che pubblicò molto più tardi l’Inno, nel 1846, inserendolo in un corpus delle opere filologiche di Leopardi. Quest’inno è di estrema importanza non tanto per il valore estetico, quanto perché evidenzia la capacità del giovane Leopardi di saper assumere e usare tutti i caratteri che erano tipici di quel genere di componimento. Ogni singola parola, ogni mito (il carattere narrativo degli inni antichi comportava che dello stesso dio si narrassero diverse avventure mitiche) e lo stesso andamento del verso erano pienamente consoni all’innologia antica. Questa creazione giovanile, se per un verso va inserita nella fase filologico- erudita del giovane Leopardi, come documentano gli elementi eruditi che costituiscono l’ossatura del componimento, per l’altro è anche la testimonianza di un modo originale di approcciarsi ai testi greci.

All’interno dello Zibaldone, ed anche negli scritti di prefazione ai singoli lavori a carattere filologico, da lui pubblicati, vi sono diverse riflessioni sul modo di leggere e tradurre sia i testi antichi che quelli moderni stranieri. Innanzitutto ritorna spesso a definire l’essenza di una traduzione. Egli afferma che “la traduzione si configura come la costruzione di una somiglianza. Perciò rientra nell’ordine della mimesis, un’imitazione che è anche rinascita di una lingua in un’altra lingua, che sia consapevole di essere non una copia ma somiglianza, non imitazione di parole, ma imitazione di cose”. La traduzione deve essere condotta in modo tale che  siano riprodotti i lineamenti del testo fonte: la versione del traduttore non deve annullarli  ma riprodurli usando la specificità della propria lingua.   Per tradurre, afferma Leopardi, deve crearsi una certa empatia; tra il poeta tradotto e il traduttore deve sussistere la magia di un sentire comune, che faccia annullare e confondere chi legge il testo- fonte e si appresta a tradurlo. In che cosa consista questa empatia lo spiega il poeta nella prefazione alla traduzione del secondo libro dell’Eneide. “in leggerlo senza avvedermene, lo recitava cangiando tuono, quando si convenia, e infuocandomi e forse talora mandando fuori alcuna lacrima. Messomi all’impresa, so ben dirti avere io conosciuto per prova che senza essere poeta non si può tradurre un vero poeta e meno Virgilio, e meno il secondo libro dell’Eneide, caldo tutto quasi ad un modo dal principio alla fine“.  Per il poeta di Recanati, dunque, se non c’è comunità di spirito non vi può essere traduzione. La fedeltà al testo di cui parla il poeta  è soprattutto aderenza allo spirito, al sapore, allo stile, alla cultura dell’originale. Nella traduzione egli persegue, insomma ,la comprensione del testo nelle sue varie sfumature così da mettere il lettore in condizioni di perdere il meno possibile dell’effetto prodotto dall’originale.

All’inizio della sua attività di traduttore la versione  è per il poeta un mezzo per cogliere ad una ad una le bellezze del classico appena letto. Poi in Leopardi diventa esplicita la volontà di sottrarsi al modello, per divenire emulo del modello stesso, cioè per essergli fedele nel perseguire l’eleganza stilistica. Intento  del volgarizzatore è di riprodurre, sì, l’opera originale ma attraverso lo stile della propria lingua; solo così si può evitare di stancare il lettore usando nella traduzione lo stile del testo- fonte.

Leopardi parte dal presupposto che qualsiasi traduzione, anche la più rispettosa delle regole grammaticali e sintattiche della lingua d’origine è un tradimento; e inoltre sostiene la convinzione che  la lingua del traduttore non deve mai  oscurare la specificità della lingua originale.  In ciò anticipa i tempi se è vero che Benjamin affermerà che la vera traduzione  è trasparente, non copre l’originale, non gli fa ombra. La difesa della dignità linguistica è difesa della dignità culturale. Non si deve mai tradurre sovrapponendo la propria cultura a quella dell’autore originale. Se è sbagliato assimilare l’autore tradotto alla cultura del traduttore, è altrettanto errato asservire la propria cultura a quella dell’originale. Entrambe devono essere trasparenti e per evitare qualsiasi sovrapposizione il traduttore deve entrare nella lingua che si appresta a tradurre tentando di esprimere attraverso la traduzione “i modi, le forme, le parole, le grazie, l’eleganza, gli ardimenti felici, i traslati, le inversioni, in una parola le qualità della lingua fonte, di modo che possano essere sentite e gustate dal lettore della traduzione”.. Ma tutto deve esprimere nella propria lingua.

Vi sono diversi tipi di approccio ai testi dei classici da parte di Leopardi.  Tutta la produzione filologica e erudita leopardiana comprende: Traduzioni, volgarizzamenti, scherzi epigrammatici, commenti, preamboli alle varie pubblicazioni, riflessioni varie sulla traduzione contenute nello Zibaldone. Nei primi anni di attività si registrano numerose traduzioni che in qualche modo seguono principi e metodi fin qui descritti e che  vedranno la loro teorizzazione matura negli anni successivi.  Sarebbe lungo analizzare il ricco patrimonio filologico e erudito di Leopardi, preme  qui portare alcune  esemplificazioni del modo di procedere leopardiano nei confronti sia dei poeti che degli scrittori greci. Esempio del modo di tradurre si può considerare la versione  poetica del frammento 976P di Saffo,  di soli quattro versi , di cui riportiamo la traduzione di Quasimodo

Tramontata è la luna

E le Pleiadi a mezzo della notte;

anche giovinezza già dilegua

e ora nel mio letto resto sola.

I quattro versi greci, di cui la traduzione quasimodea rispetta  l’ampiezza e la struttura sintattica, nella versione di Leopardi diventano otto . Elementi di amplificazione e anche di interpretazione personale fanno del testo  tradotto qualcosa di molto diverso dall’ originale. Anche Quasimodo  in qualche modo è costretto a interpretare il frammento di Saffo, ma lo fa in un solo caso risolvendo in un significato preciso un termine che era di per sé ambiguo. Si tratta della parola greca  w)/ra che può significare sia “ l’ora, il tempo”, sia per estensione “la stagione, il tempo della giovinezza”.  Può darsi che Saffo intendesse dire  più semplicemente “ passa il tempo”, ma anche  il significato di “giovinezza” può starci. Ben diversa è l’operazione di leopardi che ci offre del testo una traduzione decisamente sovrabbondante.

Questo è il testo

Oscuro è il cielo: nell’onde

la luna già s’asconde,

e in seno al mar le pleiadi

già discendendo van.               

È mezzanotte, e l’ora

passa frattanto, e sola

qui sulle piume ancora

veglio ed attendo invan .  

È stato rilevato che nel testo greco non c’è alcun accenno alle onde del mare, e che nella chiusa del frammento si parla di una “vanità” dell’attesa che manca nel testo greco. Ed inoltre mentre nel testo saffico è sottolineato il fatto che lei è “sola”, in Leopardi tale particolare risulta trascurato.    Non è che Leopardi non traduca bene . Il fatto è che egli è già precocemente invaso da quella “smania violentissima di comporre” di cui scriverà qualche anno dopo a Giordani (30 aprile 1817). È stato rilevato, poi, come la vana attesa con cui si chiude la versione leopardiana preannunci la Saffo dell’Ultimo canto . Appare del tutto evidente che la versione leopardiana del frammento  è condotta senza vincoli di traduzione: egli interpreta più che tradurre, aggiungendo elementi nuovi come espressione della propria sensibilità.  

Ciò che avviene per il frammento di Saffo è indicativo di un atteggiamento che caratterizza quasi tutte le versioni  poetiche di Leopardi. Le prime prove di traduzione,  per quanto precise  e attente a riprodurre i modi, le forme, la sintassi, lo stile dell’originale, erano pur sempre  delle esercitazioni, che non evidenziavano ancora la tendenza alla creazione poetica. Man mano che il giovane si allontanava dall’infanzia e dall’adolescenza sempre più  visibile diveniva  l’apporto personale alla traduzione. Progressivamente la poesia greca  diveniva  l’input di un motivo, di un’immagine, di una riflessione , insomma di una base su cui innestare l’espressione della propria sensibilità e della propria riflessione. Questa intrusione nel testo originale, con conseguente reinterpretazione spinta fino alla creazione di un  nuovo testo, caratterizza l’intera produzione traduttiva  di Leopardi, almeno limitatamente alla poesia.

La traduzione dei prosatori rispondeva ad un esigenza diversa . Mentre ai poeti lo accostava la sua vocazione alla poesia, dapprima ancora latente, ma progressivamente sempre più esplicita e impellente, ai prosatori, specialmente filosofi,  lo accostavano maggiormente un’esigenza di ricerca stilistica oltre che una voglia di conoscere il loro pensiero. Come si è già detto, egli riteneva che la traduzione dei grandi scrittori del passato  fosse particolarmente utile per divenire un insigne scrittore, ed anzi, egli affermava che, mentre pe tradurre poesia, occorreva avere un animo grande e poetico, per divenire traduttori occorreva essere prima un grande scrittore. Insomma, come scrive a Giordani,  “una traduzione perfetta  è opera piuttosto da vecchio che da giovane”.  Leopardi tradusse molti prosatori greci tra cui Isocrate,Teofrasto, e poi Senofonte, Luciano. A questi autori, più che per un’esigenza di comprendere il contenuto, il messaggio, lo avvicinava l’esigenza di creare un proprio stile di scrittura che emulasse  quella degli autori greci. Nel caso di Isocrate Il cruccio del Recanatese era quello di riprodurne l’eleganza stilistica. È stato rivelato come caratteristica della traduzione di Isocrate la tendenza, talvolta, a scomporre gli ampi periodi del retore greco e a modificarne le proporzioni, per poi comporre a sua volta un periodo italiano di forma diversa ma che conservasse l’eleganza e la ricchezza del periodare isocrateo. In alcuni luoghi Leopardi interviene più direttamente sul testo originale, fino a dargli a tal punto una forma diversa da farlo apparire un altro testo.

Se a Isocrate lo accostava  un’esigenza stilistica, a Epitteto lo avvicinava il fascino che in quel momento esercitava la filosofia stoica di cui appunto Epitteto era uno dei massimi rappresentanti. Come Leopardi stesso spiega nel preambolo al volgarizzamento del Manuale l’insegnamento dello stoicismo era “più di altre profittevole” nell’uso della vita umana, “più accomodato all’uomo, e specialmente agli uomini di natura e abito non eroico, né molto forti, ma temperati e di mediocre fortezza, o vero eziandio deboli”. Contrariamente a quanto si pensa e cioè che la filosofia stoica si confaccia  solo agli uomini virili e gagliardi, egli ritiene che la filosofia di Epitteto si  addica alla debolezza dell’uomo. È utile principalmente a coloro che ritengono che nella vita non vi sia  alcuna possibilità di conseguire la beatitudine o di evitare l’infelicità.

Finora si è messo l’accento sull’attività di lettore,  traduttore e commentatore delle opere dei classici latini e greci da parte di Leopardi. Dall’esame di tutta la produzione filologica ed erudita, ma anche dalle riflessioni contenute nello Zibaldone, appare evidente  non solo il modo di approcciarsi alla vasta letteratura classica, ma anche l’ammirazione che egli nutriva,  oltre che per il pensiero greco, soprattutto per il livello di perfezione artistica delle forme espressive. Lo studio dei poeti e degli scrittori, specialmente quelli greci, non poteva non influenzare l’intera produzione  poetica e filosofica di Leopardi, che da quella letteratura  trasse buona parte delle forme espressive. Si sa quanto degli Idilli di Teocrito e di Mosco  sia alla base dei Canti di Leopardi, quanto dei Dialoghi di Platone e di Luciano abbia influito sulla forma dialogica delle Operette morali, quanto la scrittura di Senofonte, Isocrate e altri costituisca il fondamento della prosa dello Zibaldone e dei Pensieri. Ad esaminare  l’apporto di ciascuno autore del mondo antico  alla formazione della ricca personalità artistica di Leopardi, che tutto riplasmò e rielaborò alla luce della sua genialità di poeta, di pensatore, e di scrittore, richiederebbe un discorso lunghissimo cui dedicare un’apposita trattazione.